L’inno e il malcostume italiano di truccare i concorsi Una notizia strepitosa, nel senso che dovrebbe far strepitare. Una precisazione sul mio ultimo intervento “papalino”. Qualche nota sulla Festa dei 150 anni italiani. Il tutto mentre fa titolo sui giornali che nell’apocalisse dei reattori giapponesi si sia salvato un gatto, che Gheddafi se la debba vedere con qualcun altro che non siano gli insorti, che la questione del potere internazionale e di tutta l’area dell’Africa settentrionale rimanga aperta o spalancata oltre la guerra civile in Libia.
La notizia strepitosa viene da Bari, e dimostra che come noi non c’è nessuno, per fare il verso a una famosa canzone mi pare degli anni ’70 (o erano i ’60?). Prendo il tutto dal “ Corriere del Mezzogiorno”.A dicembre scorso uscì un bando dell’Università di Bari che cercava una figura professionale in grado di gestire i profili della comunicazione con i media: addetto Stampa Ufficio Comunicazione Istituzionale. Un bando che venne immediatamente contestato perché tra i requisiti d’ammissione era stato previsto uno “sbarramento speciale”: erano richiesti 25 anni di iscrizione all’Ordine dei giornalisti, ovverossia un’esperienza assai più vicina alla pensione che all’inizio carriera… Venne vista come quello che era: una sostanziale preclusione a tanti professionisti che non avrebbero potuto presentare domanda perché troppo giovani.
La polemica sollevata dall’Assostampa locale spinse l’Università a eliminare tale requisito. Ma dopo poche settimane ecco svelato l’arcano nella sostanza: il contratto di consulenza, al termine della valutazione della commissione, è stato aggiudicato a Egidio Pani, 78enne ex dirigente regionale (anche capo di gabinetto del presidente Salvatore Distaso), ex vice sindaco di Bari (quando a palazzo di città c’era Simeone Di Cagno Abbrescia) e giornalista pubblicista. Sulla competizione ha pesato il requisito che assegnava 30 punti su 50 legati a “comprovate e documentate esperienze nel settore attinente le attività oggetto del contratto”. Subito è arrivata la reazione dell’Assostampa di Puglia che critica la decisione. Il compenso, per un anno, è di 18mila euro netti. Fischia il vento, come si dice…Paese longevo, mi aspetto molto dal futuro neppure troppo immediato.
La precisazione. Nel mio ultimo articolo, dedicato al vescovo di Orvieto, non era in discussione il suicidio del seminarista. Guai. Una tragedia, con molte osservazioni dolorose e condivisibili sull’esito estremo di una vocazione sacerdotale e di una “immaturità” letale resta drammaticamente a sé. Guai a parlare di vicende estreme così delicate, me ne vergognerei. E infatti il racconto era quello delle beghe curiali di Roma, della richiesta di dimissioni forzate al Vescovo in palese polemica con la sua dimensione evangelica, della “privazione” vaticana inflitta alla cittadinanza di una figura pastorale che avvicinava credenti, meno credenti, non credenti del tutto. Ci terrei a non essere frainteso. Basta leggere, se si vuole, anche per dissentire totalmente in omaggio frivolo a Mark Twain (“se non ci fossero le divergenze d’opinione non ci sarebbero neppure le corse dei cavalli”).
E infine le Grandi Feste del 17 marzo, di prima e di dopo (dopo? Non sarà che passata la festa gabbato l’anniversario perché non frega niente a nessuno? Vedremo). Essendomene già occupato mediaticamente anche in Tv (cfr. l’ultimo “Brontolo” dal sito Rai), vado per punti sommari.1) E’ finito qui, il pathos degli italiani, con le celebrazioni delle istituzioni, o continua nella quotidianità e se ne dibatte anche solo per non essere d’accordo (sarebbe- se civile- una sicura forma di rispetto della memoria, condivisa anche nella divisione)?
2) Perché la Borsa ieri era aperta? Era in contrattazione anche l’Unità d’Italia?
3) C’è chi vuole cambiare o la musica, o le parole o tutto l’inno. Per carità, l’elmo di Scipio a un’analisi impietosa e chirurgica fa pensare ormai più che a Roma a Emilio Fede, detto “Sciupone l’africano” per le sue note spese Rai, Emilio oggi bunghizzato dalle cronache. Però sia la musica che il testo (forse non di Mameli), sono semiologicamente e storicamente, cioè nei nostri segni mentali ed emozionali e nella storia fin qui acquisita, un “pacchetto completo”, che non scarterei. Siamo noi, e la contemporaneità di parole più aggiornate toglierebbe a parer mio invece che aggiungere. Intendo “scarterebbe” la nostra confezione-regalo del simbolo principale dell’Unità (anche se ormai Canto degli Italiani e bandiere tricolori vengono esaltati soprattutto dalla Nazionale di calcio, e ho detto tutto…).
4) Il punto più dolente. L’Unità d’Italia – come dimostrano atteggiamenti leghisti, strascichi polemici, fischi al Berlusca, povertà a sinistra ecc. – non è un contenuto, bensì un contenitore per molti autentico, per alcuni posticcio. Di che cosa? Della nostra storia di ieri, della nostra identità di oggi, del nostro senso del futuro per domani. Al momento abbiamo solo la storia, nel vuoto di oggi. Solo la storia. Che contenuto contiene dunque l’Unità d’Italia? Lo sapete voi?Oliviero Beha per Tiscali Newshttp://notizie.tiscali.it/oliviero-beha/
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